giovedì 18 dicembre 2008

Eutanasia. Testamento biologico

Argomento sempre caldo e dibattuto, l’eutanasia non smette di fornire spunti per discussioni interessanti, anche se, è innegabile, spesso hanno la brutta tendenza a degenerare rapidamente. Troppo diverse le posizioni in campo, arroccate su opposti spesso inconciliabili ed incapaci di un dialogo costruttivo. Menti brillanti offuscate dalle proprie convinzioni risultano nient’altro che un cavallo coi paraocchi che vorrebbe correre nel prato ma non smette di andare a sbattere contro qualche albero.
Lungi da me addentrarmi in questo campo minato, non se ne uscirebbe più. Non si può dire cosa è giusto o cosa non lo è, come si pretende spesso di fare, ma penso ognuno abbia la propria opinione in merito ed andrebbe rispettata.
Sotto il termine eutanasia possono rientrare tantissime situazioni, molto diverse l’una dall’altra. Quando si fa un discorso in merito bisognerebbe innanzitutto avere presente questo punto di partenza fondamentale. A grandi linee, si può parlare di eutanasia volontaria (quando c’è un’espressa richiesta del paziente) e non volontaria (quando ad esempio il paziente è incapace, impossibilitato ad esprimere la propria opinione). Di eutanasia attiva, quando si interviene in maniera diretta (ad esempio somministrando apposite sostanze) per procurare la morte del paziente e di eutanasia passiva, allorché la morte sopraggiunge per cause indirette (per esempio quando si ha l’astensione da interventi che manterrebbero in vita il paziente). Altri casi di cui bisogna tener presente e che rientrano spesso nel discorso sono il cosiddetto suicido assistito (quando non si ha un intervento diretto di terzi ma è il paziente stesso a porre fine alla propria vita per evitare ulteriori sofferenze con conoscenze/mezzi forniti dal medico) e l’accanimento terapeutico (ovvero il ricorso a interventi medici di prolungamento della vita al fine di sostenere artificialmente le funzioni vitali di individui affetti da patologie inguaribili).
In queste brevi definizioni, dietro questi termini del tutto generali ondeggia una grande varietà di situazioni, a seconda del quadro clinico del paziente.
La situazione va valutata da molti punti di vista che andrebbero scissi per valutare serenamente la questione, ma le discussioni in ambito religioso, giuridico, politico, etico, medico, filosofico, morale, scientifico continuano ottusamente a stagnare sempre sugli stessi punti.
Comunque, inutile negarlo, anche all’interno di ognuno di noi vi sono spinte contrapposte che ci potrebbero fare propendere per una o per l’altra strada.
Una soluzione potrebbe essere il tanto citato testamento biologico in cui ogni persona esprima la propria volontà, in condizioni di lucidità mentale, in merito alle terapie che intende o non intende accettare nell'eventualità in cui dovesse trovarsi nella condizione di incapacità di esprimere il proprio diritto di acconsentire o non acconsentire alle cure proposte per malattie o lesioni traumatiche cerebrali irreversibili o invalidanti, malattie che costringano a trattamenti permanenti con macchine o sistemi artificiali che impediscano una normale vita di relazione.
Perché, ricordiamolo, la costituzione italiana, all’art. 32 sancisce: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.”
Il testamento biologico penso potrebbe risolvere molte questioni, rilanciando tra l’altro la libertà di scelta di ognuno di noi. Ognuno potrebbe valutare preventivamente pro e contro di ogni sua decisione in merito e metterlo per iscritto in maniera che le sue volontà possano venire rispettate in caso si presenti quella determinata situazione. Vivendo in un paese democratico in cui “la libertà personale è inviolabile” e “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero”, ci si aspetterebbe forse che un tale “testamento” fosse già in uso da anni. Ogni persona deve poter essere sovrana nella sua sfera privata, libera da vincoli imposti da altri, e poter seguire il proprio giudizio secondo coscienza.Per quanto mi riguarda se mai mi dovesse succedere qualcosa che mi impedisca di vivere in maniera dignitosa, che mi tenesse inchiodato su un letto di ospedale, che mi rendesse dipendente da farmaci, macchine etc, che mi facesse essere soltanto un peso per gli altri, spero nessuno si opporrà al lasciarmi andare in pace, magari aiutandomi se non fossi in grado di farlo da solo. Si può pensarla in maniera diversa, ma per me quella non è vita.

sabato 13 dicembre 2008

Gatti, che passione!


Gatti. Queste piccole creature, quasi sempre tremende ed ingestibili, fanno ogni giorno compagnia a tanti di noi. Inutile dire che chi li conosce li ama profondamente.
Fin da piccolo sono stato abituato ad avere al mio fianco qualche gatto. Me ne sono capitati i tipi più disparati (da gatti semi-selvatici trovati in giardino, a quelli già ammaestrati da qualcun altro, da gatti-fantasma che non vedevo quasi mai ad altri iper affettuosi che praticamente non uscivano di casa) e li ho adorati tutti indistintamente.
Impossibile dire cosa li rende così fascinosi ai miei occhi ed a quelli di milioni di persone. Chi li conosce lo sa!
Quando si è piccoli probabilmente si è attratti dal carattere giocoso di questo compagno peloso. Il gatto non rifiuta mai! Dategli un qualsiasi pretesto per scatenarsi, correre, graffiare, saltare, mordere, catturare e lui sarà entusiasta, si getterà a capofitto nell’avventura propostagli, senza stare a riflettere, concedendosi istantaneamente al divertimento più sfrenato. Si può passare ore a farlo correre su e giù per le scale, a farlo andare dietro una pallina rimbalzina, a farsi rincorrere sbattendogli davanti alla faccia una corda, un ramo, un qualsiasi gingillo. Bisogna però dargli il contentino! Orgoglioso com’è non può accontentarsi di inseguire la sua preda improvvisata, ma dovrà catturarla. Ed una volta che l’avrà fra le zampe state pure sicuri che sarà spietato. State sempre attenti a fornirgli la vostra mano quando è eccitato, sarà dura per lui controllarsi durante questa attività così spassosa, ve la ritroverete completamente spolpata e piena di graffi e morsi. I gatti non sanno limitarsi!
Altro aspetto fascinoso dei gatti è la loro affettuosità. Un cane è fedele, un gatto no. Il gatto è un individualista, un egoista, un menefreghista, un completo egocentrico. Sono più che sicuro che sia convinto di essere lui il padrone e considera l’uomo il suo schiavetto. Il gatto è umorale e fa sempre e comunque quello che vuole. Non si fa intimidire dai richiami, non obbedisce, anzi spesso sembra fare apposta ad andare contro le istruzioni impartitegli. Se c’è una cosa che volete che non faccia, state certi che al 100% lui la farà. Però il gatto, quando vuole, sa essere affettuoso come pochi altri. Si struscia, vi salta addosso, vi fa le fusa, vi miagola, vi scodinzola, vi fa sentire felici. La sensazione che si prova nell’accarezzarlo, nel coccolarlo, nel grattargli la gola o la testa è unica, dà un sollievo incredibile e riconcilia col mondo. Dà soddisfazioni uniche.
Strano animale il gatto. Lunatico, indipendente ma socievole, scriteriato e sempre desideroso di azione, ma allo stesso tempo prudente e maestro della fuga. Animale notturno per eccellenza, di giorno è spesso un tenero pacciocone che trascorre la maggior parte del suo tempo dormendo, poltrendo e abbuffandosi come un maiale, quasi a voler nascondere al padrone la sua vera indole, ad occultargli le straordinarie e fantastiche avventure di cui è protagonista dopo il tramonto e di cui non vuole testimoni. Il gatto è anche spietato, uno dei pochi animali ad uccidere per divertimento e non per bisogno, un carnefice che si diverte a torturare le sue prede inermi e che ne porta fiero e festante il corpo esanime al padrone per mostrargli il trofeo di giornata e farsi bello ai suoi occhi. Guai a non accarezzarlo e dirgli bravo, potrebbe ignorarvi per un bel po’ di tempo, il suo orgoglio raggiunge vette maestose, un gatto è sicuramente molto più difficile da trattare di una donna snob e sofisticata.
E’ facile capire perché nell’antichità veniva trattato come una divinità, ma allo stesso tempo si può anche comprendere (ma non condividere!!!) perché nel medioevo venne messo al rogo al pari delle streghe quale animale diabolico.
Animale dai multipli volti, riassume in sé tutte le caratteristiche e sfaccettature umane. Forse non sarà il miglior amico dell’uomo, ma è bello proprio per questo.

venerdì 12 dicembre 2008

Ciudad Juàrez, la città del femminicidio. Luchadoras di Peggy Adam


Ciudad Juàrez è un’imponente città messicana dove vive circa 1 milione e mezzo di persone. Situata al confine con gli Stati Uniti e dirimpettaia di El Paso, metropoli americana collocata sulla riva opposta del Rio Grande, Ciudad Juàrez è accompagnata da una fama alquanto sinistra ed inquietante.
Sorvolando sul suo essere un vero e proprio portale d’ingresso per gli Stati Uniti, dove transitano non solo migliaia di immigrati clandestini alla ricerca di una qualche speranza ed all’inseguimento del sogno di una nuova vita, ma soprattutto la grande maggioranza della droga colombiana destinata al mercato nord-americano, Ciudad Juàrez è ormai legata in maniera inscindibile alle continue notizie dei cruenti ed orrendi omicidi che ivi avvengono ai danni delle donne.
Dal 1993 si sono avuti oltre 400 casi di omicidio di donne e 600 scomparse (che in una realtà del genere sono praticamente la stessa cosa, solo che i cadaveri vengono occultati o distrutti grazie a calce viva ed acidi invece che lasciati in luoghi pubblici dove possono essere facilmente rinvenuti).
La tipologia dei delitti è quasi sempre la stessa: le donne vengono rapite, torturate, violentate, seviziate, a volte mutilate ed infine strangolate. Passano parecchi giorni tra il rapimento ed il ritrovamento del loro corpo esanime. In quei giorni davanti ai loro occhi si spalanca un inferno inimmaginabile. Senza una colpa né una motivazione che non sia la follia umana, vedono il loro futuro, le loro ambizioni, le loro speranze, i loro affetti, i loro sogni stroncati da individui senza scrupoli, da deviati barbari e sadici che godono nell’infliggere le peggiori sofferenze agli altri, accanendosi contro le donne indifese con una ferocia disumana.
Anche l’identikit delle vittime è più o meno sempre lo stesso: i misteriosi carnefici propendono a scegliere donne di umili origini, carine, quasi sempre operaie (la maggior parte di loro lavora nelle numerose maquiladoras presenti, le fabbriche che assemblano prodotti per l’esportazione per società multinazionali), tutte di struttura minuta, brune e con i capelli lunghi.
Molte sono state le ipotesi fatte sui possibili assassini, ma la polizia non è mai riuscita (alcuni sostengono che non abbia nemmeno mai provato seriamente) ad arginare il fenomeno, né a catturare i veri colpevoli, anzi a volte è stata accusata apertamente di negligenza se non di complicità (gli assassini sembrano avere legami con importanti ambienti politici ed economici, chi denuncia i crimini viene spesso minacciato, le indagini insabbiate, il tasso d’impunità resta praticamente del 100%).
La più credibile delle possibilità fa risalire il tutto all’operato di alcuni serial killer, prontamente emulati da numerose persone. Ma tanta depravazione ed una simile spietata crudeltà restano un mistero. C’è chi parla di riti satanici, di orge perverse di narcotrafficanti, di venditori di organi, di sacrifici umani per girare snuff movies in cui la vittima viene violentata, torturata ed uccisa di fronte alla camera da presa, di rapimenti commissionati da importanti imprenditori che sfogano tutto il loro sadismo seviziando e trucidando le donne.
Mai minacciati seriamente dalle autorità e dalla giustizia, gli assassini continuano tranquillamente il loro percorso criminale, forti anche di un ambiente in cui il predominio maschile caratterizza ogni livello dell’organizzazione sociale, sia tra le mura domestiche che nell’ambito lavorativo. La società è fortemente maschilista e patriarcale, la sottomissione della donna viene data per scontata e la violenza su di essa è percepita come lecita e quasi dovuta nel caso non “rispetti” il proprio uomo.
Si capisce dunque come questo massacro infinito, questo femminicidio senza soluzione di continuità, questa violenza viscerale perpetua abbiano fatto diventare Ciudad Juàrez la città simbolo della violenza sulle donne.

E’ in questo contesto autentico che Peggy Adam ambienta la sua opera, recentemente pubblicata in Italia da 001 Edizioni: Luchadoras. La protagonista è Alma, una donna dall’aspetto piacente e dal carattere fiero ed orgoglioso che lavora in un bar e vive, con la sua figlioletta, assieme a Romel, un uomo violento appartenente ad una delle tante bande locali. L’uomo tra le mura familiari è un vero e proprio despota, non accetta rifiuti dalla donna, non è contemplata l’idea che lei abbia libera scelta ed arbitrio, Alma deve fare sempre quello che vuole lui, quello che lui le dice di fare, in particolare non può nemmeno guardare gli altri uomini, pena un litigio cruento e feroce che si conclude sempre con il pestaggio di Alma. I giorni si susseguono sempre uguali finché Alma non incontra Jean, giovane turista americano. La conoscenza con il ragazzo sembra dare una svolta alla vita di Alma, che decide anche di denunciare la violenza familiare subita ad una associazione che fornisce aiuto e sostegno alle donne.
La vicenda descritta nel libro ben rappresenta il contesto, degradante per la donna, in cui si svolgono i fatti: Alma è retrocessa al rango di bambolina senza volontà, ogni sua ribellione o tentativo di rivendicazione di sé viene pesantemente punito dal convivente che si configura come un padrone crudele e spietato.
Dal libro emerge perfettamente anche il clima che si respira in città: le continue sparizioni, il panico che queste creano tra le colleghe di lavoro, la tristezza ed il senso di impotenza di fronte ad ogni nuovo funerale, i ritrovamenti shockanti dei corpi mutilati e sfigurati fatti spesso dai bambini durante i loro giochi all’aperto.
Luchadoras fornisce un affresco di tutto ciò che spesso non si vuol vedere né sapere, narrando allo stesso tempo una storia coinvolgente ed emozionante che stupirà il lettore con il suo finale inaspettato.

domenica 7 dicembre 2008

Merce Rara affoga nel fango


SAGRADO- Merce Rara affonda nella trasferta che la vedeva opposta agli Amatori Gorizia. Dopo aver lottato e costruito buone trame di gioco nel primo tempo, la squadra si è disunita nella ripresa, perdendo completamente la bussola e facendosi rimontare e sopraffare dagli avversari.
Storicamente un campo ostico quello di Sagrado, già teatro negli ultimi due anni di epici scontri con rivali molto rognosi, che si è confermato tale al termine di una partita dai due volti, come spesso accade alla lisca di pesce.
Le cause sono ignote: un calo fisico con conseguente perdita di lucidità sembra la cagione principale di queste prestazioni altalenanti, contro peraltro giocatori dall’età avanzata (rispetto ai ruspanti giovani merciali), ma evidentemente più esperti nel gestire le proprie energie e nel correre al momento giusto.
L’esperienza si acquisisce giocando, ma probabilmente sarebbe utile un maggiore allenamento (a discrezione di ciascun atleta visto che l’unico allenamento va sfruttato per migliorare la tattica, il gioco di squadra, il modo di stare in campo, la prontezza nel distribuire la palla e trovare il compagno libero), per sopperire in qualche modo a questo gap che si presenta abitualmente.
Altre ipotesi parlano di un rilassamento mentale dopo il vantaggio, ma non vogliamo credere a queste voci.
Comunque sia nel secondo tempo nella formazione merciale l’anarchia è regnata sovrana, sono saltate le posizioni, il gioco manovrato è sparito e la sofferenza è stata continua. Un vero peccato visto che a pochi minuti dall’inizio della ripresa la lisca era riuscita a passare in vantaggio grazie ad una pregevole combinazione sulla sinistra, finalizzata dall’inserimento di De Zorzi. Peccato anche per alcune importanti occasioni fallite (una traversa nel primo tempo, alcune azioni pericolose che hanno messo a tu per tu con il portiere il merciale di turno), ma rientrano nella natura del gioco. Come ci può stare il rinvio sbagliato dello sfortunato Bortolotti, che ha spianato la strana alla rimonta goriziana.
Dispiace invece vedere giocatori immobili dopo un errore, proprio o di un compagno. Un aspetto importante su cui bisognerà lavorare, perché non accettabile.
Altro atteggiamento da correggere, il solito eccessivo nervosismo dei giocatori, ieri acuito senz’altro da alcuni interventi criminali dei giocatori avversari (peraltro non sanzionati dall’arbitro, che invece ha ammonito gli stessi per stupidaggini come le perdite di tempo sulle rimesse), ma che ormai è una consuetudine consolidata. Nell’occasione espulso Calabrò per una reazione stupida ed inutile che penalizza nessun altro all’infuori dei suoi compagni. Grazie a reazioni del genere è praticamente già sfumata la possibilità di avere una buona classifica in coppa disciplina, che avrebbe consentito la promozione anche in caso di terza posizione finale in classifica, senza contare che continuando di questo passo si verrà penalizzati nella generale.Mr Sau ha schierato il 3-4-3 che ha portato alla vittoria a Terzo d’Aquileia con in porta Alagia, in difesa al fianco dei confermatissimi Gallo e Garaffa c’è il rientrate Pangos, a centrocampo si rivede Tennina (schierato per l’occasione sulla fascia destra), coppia centrale Puschiasis De Zorzi e sulla sinistra Bortolotti, tridente Marongiu Calabrò De Monte. Subentrati Coppo, Modesti, Bella, Volpato, Berlese e Fari.

venerdì 5 dicembre 2008

San Nicolò a Monfalcone


Appuntamento rituale del calendario monfalconese (assieme ad altre pietre miliari quali il carnevale e la festa del vino), la fiera di San Nicolò è uno degli appuntamenti più amati dal popolo bisiaco.
Fin da piccoli si attende speranzosi il fatidico 5 dicembre, giorno in cui il centro, ormai sempre più spesso snobbato dalla massa e lasciato tristemente spoglio e deserto, si riempie di colorate bancarelle e accoglie una fiumana turbolenta di persone. Tra i banchetti dei venditori si può trovare un po’ di tutto, dai vestiti ai formaggi, dai giocattoli ai popolarissimi dolciumi.
I bimbi tutti emozionati e gaudenti sono inoltre abituati a scrivere la letterina a San Nicolò, visto come un Babbo Natale portatore di doni, e la notte quasi non riescono a dormire tanta è l’attesa per vedere se il buon omaccione esaurirà o meno i loro desideri e le loro più segrete speranze (inutile dire che la maggior parte delle richieste è rappresentata dai giochi più cool del momento!).
Ormai perso questo aspetto con l’avanzare imperterrito dell’età, San Nicolò resta comunque uno degli appuntamenti storici da non mancare per ogni buon monfalconese. Sicuramente si è smarrita ormai la magia del vagare tra le bancarelle, lo stupore per le piccole cose, la smania di vedere questo e quello.
Forse, crescendo ed allargando i propri orizzonti, pure l’evento fiera di per sé ai nostri occhi si è inflazionato: si arriva ad oggi con già Santa Caterina a Udine, Sant’Andrea a Gorizia (per non parlare di Cervignano e Romans) alle spalle… mentre una volta la vera ed unica fiera a cui si andava era San Nicolò.
Però questa giornata continua ad assolvere il ruolo di punto d’unione della gente della zona. E’ classico l’incontro tra le bancarelle con amici che non vedi da una vita, le rimpatriate, le chiacchiere con gente data per dispersa. Direi che proprio questo è diventato il bello della fiera, lo spirito d’aggregazione che si riesce a ricreare per un giorno.
Vediamo oggi, uno dei tanti San Nicolò all’insegna della pioggia, quanti vecchi volti riuscirò a riconoscere negli stretti corridoi pullulanti di gente tra una bancarella e l’altra (e bisognerà pure combattere per non farsi accecare dalle punte degli ombrelli!).

mercoledì 3 dicembre 2008

Donne giraffa. La vergogna degli zoo umani.


Se il nome Padaung non vi dice nulla, forse l’epiteto “donne giraffa” servirà ad orientarvi un po’. Le immagini di queste donne saranno sicuramente arrivate ai vostri occhi grazie ai numerosi documentari che imperano nella tv d’oggi, ai reportage di moderni viaggiatori che visitano paesi lontani e cercano (a volte superficialmente o artificiosamente) di dare una rappresentazione delle diverse culture incontrate ai loro compaesani occidentali.
Le donne giraffa iniziano a diventare tali verso i 5-7 anni. A questa età viene infilato loro il primo anello (dal peso di tre chili) al collo e successivamente, ogni due anni, gliene si aggiunge un altro. Il loro collo inizia così a deformarsi, si ha uno slittamento della clavicola ed una compressione toracica. Il collo sembra assumere una lunghezza di 25-30 cm. Pesanti anelli vengono speso infilati anche a polsi e caviglie.
Inutile dire che la mobilità ne risulta fortemente limitata e che sono necessari molti accorgimenti per evitare l’insorgere di problemi di circolazione (es. massaggi) e per contrastare la sudorazione, che può causare infezioni e tumefazioni alla pelle (es. nelle giornate di sole bisogna arrotolare un asciugamano al collare per evitare che i raggi arroventino l’ottone).
E’ dibattuta l’origine di questa tradizione: se si asseconda il mito sarebbe stata introdotta per proteggere le donne dagli attacchi delle feroci tigri del posto, ma c’è chi sostiene che questa pratica fosse una punizione per le donne adultere e chi dice che rappresentasse un modo per ostentare la propria ricchezza ed ottenere in tal modo rispetto.
Le donne di etnia Padaung vivono soprattutto nella zona di confine tra l’ex Birmania e la Thailandia.
Qui si è venuta a creare una delle tante situazioni vergognose, irrispettose della dignità della donna, di cui il mondo è ancora oggi pieno.
La particolarità di queste donne, infatti, richiama frotte di turisti, desiderosi di assistere a quelli che ai loro occhi appaiono come singolari spettacoli da immortalare coi spietati obiettivi delle loro fedeli macchine fotografiche, per avere qualcosa da raccontare e di cui vantarsi con i propri amici una volta tornati a casa.
Le autorità locali, sensibili al dio denaro, non hanno certo esitato a sfruttare questa provvidenza piovuta dal cielo ed hanno disposto di allestire dei veri e propri zoo umani, con tanto di biglietto d’ingresso per poter vedere e fotografare le donne giraffa (pagando si può assistere anche alla cerimonia di apposizione del primo anello al collo delle bambine). Ovviamente per la popolazione locale questa usanza spesso rappresenta una delle poche fonti di reddito e far mettere al collo della propria bambina questi pesanti anelli vuol dire avere “easy money”; ne segue che questa pratica negli ultimi anni ha assunto nuovo vigore e sempre più larga diffusione.
Chissà come si sentirebbero i turisti a parti invertite, ad essere ridotti ad attrazioni da circo private di ogni unità umana.

lunedì 1 dicembre 2008

Estraneazione sociale, vite virtuali. Welcome to the N.H.K.


“Hikikomori ( letteralmente "stare in disparte, isolarsi") è un termine giapponese che sta ad indicare un fenomeno comportamentale riguardante gli adolescenti e i giovani post-adolescenti in cui si rigetta la vita pubblica e si tende ad evitare qualsiasi coinvolgimento sociale. Si tende quindi ad isolarsi chiudendosi nelle proprie case e interrompendo ogni genere di rapporto con gli altri, fuori dalle mura domestiche. L'hikikomori diventa schiavo della propria vita sedentaria, gioca con videogiochi e guarda la televisione durante tutto il proprio tempo libero. L'unico mezzo di comunicazione che usa è internet, con cui si crea un vero e proprio mondo tutto suo, con amici conosciuti online.
Il termine può essere utilizzato sia per definire il fenomeno in sé, sia i soggetti che ricadono nel gruppo di persone che fanno parte di questo fenomeno.
Molti casi nascono per via di disavventure scolastiche o lavorative oppure per problemi di carattere psicologico.
Secondo una stima del Ministero della sanità giapponese il 20% degli adolescenti maschi giapponesi sarebbero hikikomori. In realtà sembrerebbe che questo "stato" affligga non soltanto i ragazzi, ma anche le ragazze.” ( cito da http://it.wikipedia.org )

La nuova opera pubblicata da Jpop, Welcome to the N.H.K.” (di Tatsuhiko Takimoto e Kendi Oiwa) ha per protagonista proprio un giovane hikikomori, Tatsuhiro, un ragazzo in preda ad una “depressione cosmica” che negli ultimi quattro anni non ha avuto pressoché vita sociale, restando per lo più rintanato in casa ed evitando contatti con l’esterno. Ormai allo sbando, decide di dare una svolta alla sua triste esistenza ed il primo passo da affrontare è la ricerca di un lavoro. Un aiuto insospettato (e non richiesto) gli verrà dato da Misaki, una ragazza carina che sta effettuando una specie di esperimento sociale per guarire gli hikikomori. Ovviamente la strada per uscire dal tunnel non sarà breve, le ricadute sono dietro l’angolo (per un passo fatto in avanti a volte se ne fanno tre indietro!) e spesso fragorose, il ritorno a vecchi vizi estranianti una possibilità sempre attuale.
Con un tono leggero e scanzonato, con trovate divertenti, equivoci assurdi, scene esilaranti, gli autori propongono una riflessione su un tema serio, su un fenomeno sempre più dilagante, soprattutto tra i giovani.
Molti ragazzi tendono a rinchiudersi in sé stessi, estraniarsi dal mondo circostante che non amano e che sembra non amarli e si catapultano in un mondo virtuale, si trincerano dietro a videogiochi, fumetti od altre passioni che non li obbliga ad interfacciarsi personalmente con altri individui.
I contatti con l’esterno sono limitati al minimo indispensabile (azioni quotidiane come fare la spesa), ci si crea un universo parallelo, a volte ci si immedesima in giochi di ruolo online fino a crearsi una seconda vita, più ricca, gratificante, fantasiosa della prima.
Le motivazioni alla base di una scelta apparentemente assurda sono molteplici: l’atteggiamento di rifiuto e repulsione per il mondo circostante può scaturire da un trauma infantile, da episodi di violenza scolastica, da un contesto familiare aggressivo, da un background sociale degradante o più semplicemente dalla debolezza, dalla fragilità psicologica di ragazzi timidi ed introversi.
Il fumetto presenta una simpatica e piacevole riflessione sul tema, mostrando gli eccessi e la degenerazione a cui si può giungere e facendo meditare su un problema sociale grave dalla portata molto vasta.
Utile lettura per chi cercasse un’oretta di sano intrattenimento, divertendosi ed affrontando un tema serio ed impegnato.

martedì 25 novembre 2008

Léon e Mathilda: un tragico intreccio d'amore


"Léon è un killer, un sicario a pagamento della peggior specie, introvabile e indistruttibile, fin quando un topolino penetra nel suo universo: un topo piccolo con gli occhi immensi della dodicenne Matilde. A parte J. Reno, per il quale il film è stato scritto su misura, la piccola N. Portman è la rivelazione del film. È la bizzarra, perversa e onesta storia d'amore tra una dodicenne e un sicario. Amore senza sesso. Lui, l'adulto bambino, la istruisce a uccidere; lei, la bambina adulta, gli insegna a vivere. L. Besson è un manierista, ma sa prendere i suoi rischi: il suo è un cinema d'azione che non esclude, però, né una strenua attenzione alla psicologia né la cura puntigliosa dei personaggi. Notevoli G. Oldman e D. Aiello." (da mymovies)

Ho amato pochi film come Léon.
Questa favola metropolitana dolce e spietata riassume in due ore e mezza uno sterminato universo di emozioni, racchiude il variegato ed insondabile panorama dei sentimenti umani, dandone un affresco quanto mai realistico, crudele e tenero allo stesso tempo.
I protagonisti di questa tragedia d’amore ambientata nei bassifondi di New York sono Léon, il più abile tra i sicari della mala, capace di uccidere qualunque obiettivo gli venga segnalato, e Mathilda, una dodicenne peperina e smaliziata cresciuta in un contesto familiare sgradevole, con un padre violento ed una madre menefreghista.
Léon è un tipo cupo, solitario, fuori dal mondo. L’unica sua compagna è la piantina che cura con un amore esasperato ed il solo lavoro che sa fare sono “le pulizie”. Non ha interesse per i soldi, non ha ambizioni né speranze, ma paradossalmente è un uomo di sani principi, si impone lui stesso delle regole che stridono con il suo ruolo di killer senza scrupoli (“mai donne né bambini”).
Mathilda invece è una ragazzina sveglia, attiva, che vuole evadere dal contesto degradante e spersonalizzante in cui vive, vuole crescere subito, vuole reagire all’oppressione di cui è sempre stata vittima.
I destini dei due finiranno per intrecciarsi, diventeranno una coppia inscindibile, il loro legame pieno di contraddizioni non può non colpire lo spettatore, non può non coinvolgerlo. Lèon insegnerà a Mathilda la sua professione ma allo stesso tempo la piccola bimba lo istruirà sulla vita, gli schiuderà orizzonti mai nemmeno immaginati, lo farà uscire dal torpore in cui si era richiuso.
La loro storia d’amore è dolce, platonica ed impossibile ma non per questo meno vivace, frizzante, struggente.
Ma il film non si limita a questo. Non si scade mai nel melenso, a momenti di una tenerezza infinita si alternano scene d’azione dinamiche ed energiche.
I due non sono immersi in universo a sé stante, ma vivono nella squallida quotidianità di una realtà sporca e degradata com’è quella dei bassifondi metropolitani newyorchesi. I valori qui spesso sono invertiti, come la parabola dei protagonisti lo potrà dimostrare: il sicario qui veste i panni del buono, sono i poliziotti che sono i veri corrotti, il manifesto del male, sono loro che impersonificano i valori distorti del mondo d’oggi: lo psicotico, drogato, allucinato Stanfield ne è un’icona indimenticabile, magistrale sono tutti i punti di vista.
La sequenza finale resta una delle pagine più belle del cinema: (chi non lo avesse visto non legga oltre!) un Léon che ha superato mille difficoltà, ha combattuto contro tutti i reparti della polizia possibili immaginabili, ha trovato il modo per farla franca. Vestito da poliziotto sta per uscire dal suo condominio, dove si era asserragliato. Ormai è fatta, ha il cuore colmo di speranza, vede l’uscita, non c’è più nessuno. Ed all’improvviso la telecamera ci inonda con ciò che lui stesso vede, siamo catapultati nel film in prima persona, siamo noi Léon. La porta, la salvezza, la libertà, l’amore, la vita, Mathilda, tutto è lì a due passi. Ed ecco la porta distorcersi, la nostra visione viene ballonzolata di qua e di là, non è più possibile raggiungere nulla. Siamo a terra, Lèon non ha fatto i conti con la furbizia e la spietatezza del suo antagonista, che lo aspettava, che aveva intuito, che gli piazza una pallottola in testa. Ma Léon non se ne andrà così e chi ha visto il film sa che la sua uscita di scena è degna di lui.
Ho amato pochi film come Léon. E non smetterò mai d’amarlo.

domenica 23 novembre 2008

Commodore 64, un amico!


“Il Commodore 64 (C64, C=64, CBM 64, 64) è stato un home computer molto popolare negli anni ottanta. Il nome adottato dalla casa costruttrice, la Commodore Business Machine fu inizialmente Vic-30, ma prima della distribuzione venne cambiato in Commodore 64.

Il Commodore 64 risulta essere il modello di computer più venduto al mondo, record che si trova anche nel Guinness dei primati: nel 1986 furono venduti più di 10 milioni di esemplari in tutto il mondo. Fu commercializzato fino al 1993, quando le unità vendute furono appena 700 mila. In totale, ne sono stati venduti nel mondo oltre 17 milioni di esemplari: record che, con tutta probabilità non verrà mai più superato (la natura degli attuali computer, assemblati diversamente a seconda delle esigenze dell'utente, rendono praticamente impossibile ripetere un'impresa simile).
La semplicità d'uso e facilità di programmazione di questo nuovo computer era superiore sia ai suoi predecessori (il PET e il VIC-20) sia agli altri home computer concorrenti. Grazie a ciò e al suo prezzo di vendita, in breve tempo divenne il computer più venduto nella storia dell'informatica.” (da wikipedia)

“Il Commodore 64 è stato un fedele compagno di giochi per moltissimi adolescenti e non solo. Grazie alle sue molteplici capacità poteva trasformarsi grazie ai suoi chip custom da versatile computer alla più potente console dei primi anni '80 almeno fino all'arrivo della seconda generazione di piattaforme videoludiche provenienti dal sol levante, come il Nintendo 8-bit e il Sega Master System. Potendo contare sulle caratteristiche che differenziano un calcolatore da una console per videogiochi, come la presenza della tastiera che permette di svincolarsi dai classici joystick o paddle, il C64 annoverava nella sua libreria anche numerose adventure grafiche o testuali e giochi di simulazione e strategia. Con un parco titoli che raggiunge le 15000 unità il C64 ha attraversato a testa alta tutti gli anni '80 regalandoci giochi indimenticabili ormai divenuti dei classici e che spesso hanno trovato seguito su piattaforme più potenti.” (da c64italia)


Dove ora spopolano Playstation, Wii, Xbox & Co., una volta regnava indisturbato l’indimenticabile Commodore64.
Per un bimbo cresciuto negli anni ’80 come me, il Commodore è stato un fedele compagno di giochi per tanti anni, ha scandito la mia infanzia con giochi incredibili, bellissimi, che ti prendevano per ore ed ore, ti stritolavano nella loro semplicità geniale ed allo stesso tempo ti schiudevano orizzonti meravigliosi dandoti la possibilità di vagare con la fantasia attraverso gli scenari più disparati, vivendo le avventure in prima persona.
Sì il Commodore era qualcosa di più di una fredda macchina, aveva senza dubbio un’anima!
Quanto tempo passato davanti allo schermo, in scontri epici, battaglie sensazionali, partite infinite con mio fratello, mio cugino e i miei amici.
Essendo dei maniaci del calcio, il nostro gioco preferito era il mitico Gazza II.
Sulla scatola si ergeva l’immagine del mito dannato del calcio di quegli anni, Paul Gascoigne (ora affogato nel tunnel dell’alcolismo), giocatore dal genio incommensurabile anche se non proprio professionista modello :D
Trepidanti attendevamo che il registratore caricasse il gioco: il tempo che la cassetta impiegava girando era sempre troppo lungo, l’attesa era sempre spasmodica, febbrile, la smania, la voglia di giocare superava tutto, in quel momento trascendevamo da questo mondo e ci tuffavamo in universo a sé stante, soli con quella macchina infernale di sogni e divertimento.Il Commodore ormai è superato, non viene prodotto già da una quindicina d’anni, è morto. Ma non verrà mai dimenticato da tutti gli amici cui ha donato tante spassose e ore di gioia.

sabato 22 novembre 2008

Katori Shinto Ryu


"Il Tenshin Shoden Katori Shinto Ryu è la più antica scuola di arti marziali tradizionali del Giappone, venne creata nel 1447 presso il tempio shintoista di Katori.
Viene studiato principalmente l’uso della spada giapponese, che è sempre stata considerata l’arma principale del samurai.
In seguito, attraverso lo studio del maneggio di altre armi, si imparerà a modificare il senso della distanza e il tempismo di attacco e di difesa.
Il programma prevede un utilizzo progressivo di più armi, che sono: Katana (spada lunga), Bo (bastone lungo), Naginata (alabarda), Kodachi (spada corta), Ryoto (due spade), Yari (lancia).
L’addestramento prevede una serie di movimenti codificati (kata) di attacco e difesa che si sviluppano su una serie di livelli differenti, al fine di far nel tempo acquisire all’allievo scioltezza, rapidità, serenità di giudizio e tranquillità mentale durante l’azione." (riporto dal volantino dell'associazione Niten di Monfalcone; info: niten@libero.it)


Riporto da: http://www.katorishintoryu.it/
"La storia.
La nascita della scuola è riportata nei testi come una commistione di leggenda ed eventi storici, fatti e mitologia. Il fondatore, Iizasa Choisai Ienao (1387-1488), era il figlio di un Guerriero appartenente alla piccola nobiltà di campagna che viveva nel villaggio di Iizasa (oggi Tako-machi) nella prefettura di Chiba. Ancora giovane Ienao già si distingueva negli studi marziali della spada e della lancia. Presso gli uomini del clan Chiba, i suoi superiori, Ienao era ben conosciuto per la sua eccellenza nelle abilità marziali. Il giovane Ienao partecipò a combattimenti individuali sul campo di battaglia e non fu mai sconfitto. Così la sua fama di guerriero si estese velocemente da un capo all’altro del territorio. Più tardi, con la caduta del clan Chiba, Ienao si staccò dal suo stesso clan e dagli alleati e donò un migliaio di koku di riso al tempio di Katori ed eresse pure il Shintokusan Shinpuku-ji, un tempio, a Miyamotomura, Otsuki, dove donò un altro migliaio di koku di riso.Ienao si recluse a Umekiyama, un posto collocato vicino il recinto più interno del tempio di Katori. Durante il periodo in cui Ienao visse un’esistenza ritirata, avvenne che uno dei suoi devoti discepoli si recasse a lavare un cavallo ad una fonte vicino al tempio di Katori. Poco tempo dopo il cavallo iniziò a soffrire di forti dolori e, pochissimo dopo, morì. Ienao si meravigliò per l’accaduto ed attribuì questi straordinari effetti al potere divino di Futsu-nushi no Mikoto che, secondo lui, aveva provocato la morte del cavallo. All’età di sessant’anni allora, Ienao decise di dedicarsi ad una quotidiana adorazione al tempio di Katori per un periodo di mille giorni. Durante questo periodo, e dopo aver compiuto un’austera cerimonia di purificazione, s’impegnò in un severo regime di allenamento marziale. Mentre era in questo stato di disciplina spirituale, così ci narrano, Ienao ebbe una visione di Futsu-nushi no Mikoto. Questa potente divinità, con l’apparenza di un giovane ragazzo, apparve a Ienao dopo che si era seduto su un ramo di un vecchio albero di prugno, vicino al luogo dove era solito allenarsi. La visione offerse a Ienao un volume di Heiho Shinsho, un libro di strategia marziale scritto da mani divine. La visione gli predisse pure: “Tu diverrai il più grande maestro di tutti gli uomini di spada sotto il sole”. Dopo questa esperienza Ienao fondò la propria tradizione marziale e premise al nome formale di questa l’espressione “Tenshin Shoden”, che ricorda la trasmissione divina ricevuta da Futsu-nushi no Mikoto. Un enorme numero di manoscritti sulla strategia marziale sono tuttora conservati dall’attuale capo della famiglia Iizasa a testimonianza della grande esperienza pratica e spirituale acquisita da Ienao nelle discipline marziali. Il maestro Iizasa Choisai Ienao morì, sorprendentemente, alla veneranda, ed inconsueta, età di centodue anni. Il suo postumo nome buddista è Taiganin-den Taira-no-Ason-Iga-no-Kami-Raiodo-Hon-Dai-Koji; quello di sua moglie è Kagakuin-den-Myoshitsu-Seikyo-Taishi.

La scuola:
Il programma di studi si accentra sull'insegnamento dell'uso della spada giapponese, che considera l'arma principale . L'apprendimento ulteriore delle armi tradizionali, ne completa lo studio.Attraverso le altre armi si imparerà a modificare: la propria distanza e i tempi di attacco e di difesa.Il programma prevede quindi un utilizzo progressivo di più armi, che sono:

· Katana, spada lunga
· Bo, bastone lungo (180 cm)
· Naginata, alabarda (lama di spada su un'asta lunga)
· Kodachi, spada corta
· Ryoto, due spade (katana e wakizashi)
· Yari, lancia
· Shuriken, piccole armi da lancio .

L'addestramento prevede una serie di movimenti codificati (kata) di attacco e difesa tra esperto che utilizza una spada di legno (bokken o bokuto) e allievo che, di volta in volta, usa tutte le armi previste dal programma della scuola.I kata si sviluppano su una serie di livelli differenti, al fine di far nel tempo acquisire all'allievo scioltezza, rapidità, serenità di giudizio e tranquillità mentale durante l'azione, realizzando così uno stato fisico e mentale di allerta permanente .
L'abbigliamento previsto è composto da una giacca da allenamento (keikogi da judo, aikido o kendo), e da una hakama blu o nera. Per i principianti nei primi tempi, è preferibile utilizzare dei pantaloni tipo judo per l'impostazione precisa degli spostamenti (taisabaki).
È consigliato accostarsi al Katori Shinto Ryu ad età superiori ai vent'anni, sebbene risulti comunque una pratica accessibile a tutti."


Ho praticato questa disciplina per poco più di un anno, ma mi è rimasta nel cuore. Purtroppo ho dovuto smettere in quanto non compatibile come orari con i miei altri impegni sportivi, ma spero prima o poi di riuscire a tornare in palestra ad esercitarmi coi miei vecchi compagni (tra l'altro tutti molto disponibili e gentili, seppure io fossi abbastanza negato!).
Non sono mai stato un appasionato di arti marziali, però la cultura giapponese mi ha sempre affascinato, con le sue vecchie tradizioni, con modi di pensare, di comportarsi, di vivere singolari agli occhi di molti occidentali. La figura del samurai poi, aldilà della veridicità storica dei fatti, ha sempre esercitato un certo ascendente nel mio immaginario. Così accettai molto volentieri l'invito del mio amico Giulio che mi propose di provare questa disciplina in cui, mi diceva, ti insegnano ad usare la katana (la spada giapponese) e di cui non avevo mai sentito parlare. Leggendo poi anche molti manga ambientati nel giappone feudale, non esitai un attimo ad iscrivermi.
La trovo un'arte molto sofisticata, dettagliata, che tende alla perfezione. Non ci sono combattimenti sanguinari, ma si eseguono kata, sequenze di movimenti in cui si sa già che mossa fare e quale sarà la mossa del proprio compagno-avversario. Bisogna porre un'attenzione particolare a tutto ciò che si fa e a tutto ciò che avviene intorno a noi.
Le movenze, per uno abitutato a giocare a calcio, sono piuttosto strane, il bilanciamento del corpo è molto diverso, inutile dire che all'inzio si è molto goffi e che i miglioramenti sono graduali (anche se non è una gradualità regolare, "lineare", ma si va avanti a brusche impennate, ad esempio dopo un periodo in cui non ti sembra di fare progressi hai improvvisamente un' "illuminazione" che ti fa capire cosa stai sbagliando, cosa devi fare per migliorare in un dato frangente del kata).
Con pazienza e dedizione però i frutti si vedono e già dopo un anno ero letteralmente un altro praticante rispetto all'inizio (anche se ovviamente ero sempre ad anni luce rispetto a chi aveva fatto anche solo un anno di pratica in più).
Durante il primo anno ho imparato sopratutto ad usare la spada giapponese, poi negli ultimi mesi ho iniziato anche a maneggiare il bastone lungo e, per poco, la naginata. Ci sono ovviamente diversi livelli di apprendimento per ogni arma, si prosegue in una specie di "spirale di insegnamento". Ho partecipato anche ad un paio di raduni in Lombardia (uno in una location spettacolare, un lembo di terra in mezzo al lago d'Iseo) con molti praticanti provenienti da tutta Italia e con il più grande maestro vivente, Goro Hatakeyama, classe 1928.
Se mai vi capitasse, consiglio a tutti di provarlo!

venerdì 21 novembre 2008

Bisogna saper perdere...


Kidshealth.org ha elaborato un decalogo per vivere lo sport in maniera positiva e saper gestire la sconfitta. Lodevole iniziativa che mi trova perfettamente d’accordo: ormai si è perso completamente il gusto per fare sport, si è dimenticato il suo significato più profondo.
Sport è innanzitutto far del bene a sé stessi, divertirsi, è una valvola di sfogo, ritempra sia il corpo che la mente.
Ormai la degenerazione dei valori è evidente, fin da piccoli i bambini vengono spinti a far di tutto per vincere, per primeggiare, per dimostrarsi migliori degli altri. Non in porta il modo in cui si ottengono i risultati, non conta il costo che questo ha sull’individuo.
La Football Association inglese ha vietato ai minori di otto anni la partecipazione a tornei agonistici, per salvaguardarli da genitori ed allenatori senza scrupoli che non vogliono altro che il successo per i loro figli, vogliono vederli sfondare e guadagnare milioni. Non so se è la via giusta da percorrere, ma quantomeno è un tentativo. Sempre meglio dell’immobilismo italiano.

Queste le dieci regole:

1) comportati educatamente con tutti, non essere aggressivo: non serve
2) non fare il fenomeno: se sei bravo gli altri se ne accorgono da soli. Se invece sbagli, nessuno ti prenderà in giro
3) che tu abbia vinto o perso, riconosci i meriti del tuo avversario
4) impara bene le regole del gioco, e dai il massimo in allenamento. Il merito sta anche nell’impegno
5) ascolta l’allenatore, segui le sue indicazioni anche se non le condividi
6) rispetta sempre il verdetto degli arbitri, stai al tuo posto e non prendertela
7) non cercare scuse e non dare colpe ai tuoi compagni di squadra: impara da quello che hai vissuto, c’è sempre da capire qualcosa di sé quando si sta insieme agli altri
8) lascia posto a tutti, nel gioco, anche se pensi di essere più bravo
9) non imbrogliare, sii corretto in ogni evenienza: solo così il risultato finale (buono o cattivo) ha un senso
10) sostieni i tuoi compagni, nel bene o nel male. Faranno lo stesso con te.

Come si vede sono regole semplici, principi basilari che dovrebbero fa parte della cultura di tutti.
Ovviamente non è così ed anzi comportarsi nella maniera opposta sembra essere una maniera per farsi sembrare belli, duri, forti, vincenti.
Come se la determinazione che uno ci mette quando gioca si vede da quanto uno urli ai compagni o da quanto imprechi contro l’arbitro o da quanto minacci gli avversari. Guadagnare falli con simulazioni è sinonimo di esperienza, far falli senza farsi vedere dall’arbitro pure. La realtà attuale è questa. Ed è molto triste.

giovedì 20 novembre 2008

Benvenga lo Jenga!


”Jenga è un gioco da tavolo per qualsiasi età. Il nome del gioco è tratto dallo lingua swahili; jenga significa "costruisci!", imperativo del verbo kujenga.
La preparazione si effettua sistemando 54 blocchi di legno su piani che formano una torre, tre blocchi per piano. I giocatori a turno sottraggono un blocco di legno a loro scelta dalla torre e lo posizionano sulla sommità della stessa.
Durante il gioco, la torre diventa sempre più instabile, così quando uno dei giocatori sottrae il pezzo che la fa crollare questo giocatore ha perso.” (da wikipedia)

Chi non ha mai giocato a Jenga?!
Jenga è la dimostrazione di quanto poco basti per divertirsi. Qualche pezzetto di legno, amici, voglia di stare insieme ed un po’ di fantasia.
Certo non ha il fascino di una partita con la Wii o di una sfida a PES, ma nella sua semplicità è geniale e divertente.
La tensione quando bisogna togliere un blocco e la torre sta già tremando tutta è simile a quella di un giocatore sul dischetto del rigore alla finale dei mondiali. Le urla beduine degli avversari (è consentito infatti distrarre il concorrente a patto di non destabilizzare la torre) non si sentono neanche su un campo di battaglia. La perizia richiesta per rimuovere certi blocchi è oltre ogni possibilità umana.Ma la parte più divertente sono le punizioni scelte per chi sbaglia e fa crollare tutto! Ci si può letteralmente scatenare. Le menti malefiche e spietate non mancano mai!

mercoledì 19 novembre 2008

I mille volti di Padova



Non potevo non dedicare un post a Padova, visitata sabato in occasione di “Tuttinfiera”. Dopo aver passeggiato curiosi tra gli stand ed i negozietti presenti alla fiera, abbiamo approfittato dell’occasione per fare un bel giro per la città.
Inutile dire che mi ha impressionato positivamente. Si sa che sono un contadinello di campagna che, abituato alla sterile ripetitività dell’ambiente monfalconese, resta sempre affascinato di fronte a realtà diverse, a contesti vitali con strade piene di gente, a città degne di questo nome.
Percorrendo l’infinita via principale che dalla stazione arriva a Prato della Valle attraversando tutto il centro, si è potuto vedere un po’ di tutto, era incredibile come ad ogni passo l’umanità incontrata si differenziasse un po’, come gradualmente si passasse da un certo tipo di ambiente e stile di vita ad un altro quasi opposto.
Vicino alla stazione dominano gli stranieri, a colpo d’occhio si nota che la maggior parte della gente proviene dai più disparati angoli del mondo; invece avanzando e penetrando il cuore della città piano piano questi volti stranieri scompaiono quasi del tutto, lasciando il posto a gente dalla tipica cadenza veneta, per poi ricomparire improvvisamente nella zona del mercato.
Mi è sembrata davvero una città energica piena di vita: sarà che era sabato pomeriggio-sera ma nella zona pedonale le strade erano ricolme di gente, tutti che entravano ed uscivano dai negozi, passeggiavano allegramente, scherzavano, schiamazzavano, correvano, chiacchieravano.
Come prevedibile la zona che preferisco è quella vicina alla stazione, ribollente di persone confluite lì da mille posti diversi, ciascuno con una propria cultura, modi di fare e di vivere differenti. Sarò controcorrente ma zone così esercitano sempre un grande fascino su di me, è lì che mi piace stare, è lì che sento quanto grande è il mondo, è lì che si scoprono interessanti aneddoti, lascio volentieri ad altri i posti frequentati da tanti snob tirati e perfetti. Anche perché tutti gli stranieri conosciuti sono solitamente molto cortesi e disponibili, con una simpatia ed una gestualità da apprezzare.

Il sunto perfetto di quanto visto non può che essere il punto Snai di fronte alla stazione: entrando lì dentro sembrava di aver attraversato una porta dimensionale che ci avesse scaraventato in una ricevitoria a Chicago o a Mosca od ancora a Città del Capo o Pechino. Una mandria di persone incredibile, una gran calca, tutti intenti a seguire partite di squadre sconosciute della terza serie scozzese o cavalli che stanno correndo in chissà quale ippodromo sperduto. Il fatto curioso è che eravamo pressoché gli unici italiani presenti. Facilmente si potevano riconoscere i tanti clan presenti: la platea era ricolma di gente di colore, tutti con foglietti di carta in mano, festanti ad ogni gol favorevole alla loro scommessa. Più in disparte e meno appariscente nonché numeroso il gruppo russo, facce torve e fisico impressionante (io non farei mai rissa con uno di quelli!), ma anche molta gentilezza dietro quella scorza impenetrabile. Poi ancora il gruppo dei timidi cinesi e quello dei sempre tranquillissimi bengalesi, quello dei turchi e quello dei più animati slavi.
Mille volti diversi in un unico posto, non posso non amare un luogo così.

venerdì 14 novembre 2008

Morire sul lavoro. "Mecnavi. Ravenna, 13 marzo 1987"





13 marzo 1987. Data scolpita con marchio indelebile nella storia della lotta contro le morti sul luogo di lavoro. A Ravenna 13 persone morirono tragicamente a causa dell’incendio sviluppatosi a bordo della nave presso cui stavano svolgendo attività di manutenzione e pulizia, la tristemente nota Elisabetta Montanari. Il caso ebbe grande risonanza e scoperchiò, portandola all’evidenza di tutti, la mancanza di adeguate condizioni di sicurezza sul lavoro con cui si doveva far fronte in molti comparti produttivi.

Sono passati più di vent’anni da quel nefasto giorno e sono stati fatti grossi passi in avanti sia da un punto di vista legislativo sia sotto l’aspetto della mentalità: si sta lentamente acquisendo quella “cultura” della sicurezza indispensabile per limitare al massimo le possibilità di accadimento di eventi dannosi per la salute e per la sicurezza dei lavoratori nell’espletamento delle loro mansioni.

La strada da percorrere, però, è ancora lunga: tuttora i morti sul lavoro sono più di mille all’anno, gli infortuni circa un milione.
Possono sembrare asettiche cifre senza significato, ma se si prova ad immaginare la disperazione di mille famiglie rovinate senza motivo si capirà la rilevanza del problema.

Quel fatidico giorno persero la vita 13 uomini, molti dei quali giovani, alcuni erano extracomunitari, certi non erano nemmeno in regola, qualcuno era perfino al primo giorno di lavoro. Quando si sviluppò l’incendio si trovavano nella stiva e nel sottofondo della nave, ambienti bui, angusti, disagevoli; non vi erano estintori né autorespiratori e le loro uniche vie di fuga (stretti ed incomodi boccaporti) costituivano il camino ideale per i fumi tossici sviluppatisi nella combustione del gasolio presente e dei rivestimenti in poliuretano delle cisterne presenti nella stiva della nave.
Non avevano quasi nessuna possibilità di salvarsi ed è facile immaginare l’angoscia che deve averli attanagliati durante i loro ultimi disperati tentativi di uscire da quell’inferno.

Guardagli con la sua ultima opera, “Mecnavi. Ravenna, 13 marzo 1987”, vincitrice del concorso Komikazen 2007, rievoca quel terrificante episodio, fissandolo su carta con l’estrema espressività del suo tratto: un disegno brutale, incisivo, vigoroso, graffiante.
Partendo da una situazione immaginata nel presente, ripercorre gli eventi affidandosi alla memoria di un vecchio operaio: Ettore rivede in Said, un picchettino egiziano che ha appena avuto un incidente, per fortuna senza conseguenze gravi, il ben più sfortunato Mosad, morto anni prima sulla Montanari.
Non sarà però l’unico punto di vista adottato nel corso del libro, anzi l’autore farà della pluralità delle prospettive proposte uno dei maggiori pregi dell’opera: verrà data voce ai parenti delle vittime, a chi lavorava lì ed ha assistito a quell'inferno ed anche ai responsabili del cantiere, riportando quelli che probabilmente sono stralci delle loro testimonianze.

Il messaggio è chiaro e non può lasciare indifferente il lettore.Parafrasando gli striscioni al corteo funebre delle vittime: “Mai più”.


Il libro si conclude con un ricco apparato documentale, molto dettagliato, che dà un'immagine chiara di quanto successo sulla nave.

Per finire, saluto l'autore che mi ha impreziosito l'albo con una dedica alla recente Lucca Comics.

(Le immagini sono degli aventi diritto. Le ho riportate a puro scopo informativo)

[Edited 20 novembre]: ho scoperto un interessante sito al riguardo: http://mecnavi.jimdo.com/

mercoledì 12 novembre 2008

Contatore!

Ringrazio la sempre gentilissima Irene che mi ha spiegato come mettere il contatore sul blog!!!
Grazie mille!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

Un'affresco degli abusi sui minori. "La storia del topo cattivo"


Difficile trovare un tema più scottante della violenza sui minori. Argomento serio, impegnativo, che spesso urta la sensibilità della gente. Non se ne vuole sentire parlare, sembra una cosa inumana che non appartiene a questo mondo. Eppure tali atti non li compie nessun diavolo sceso in terra, nessun demone, il colpevole di azioni così terribili è sempre un uomo partorito dalla nostra società.
Il problema esiste e non affrontarlo non fa che peggiorare le cose: i crimini a sfondo sessuale sono i più diffusi, sono più frequenti perfino degli omicidi.
E non stiamo parlando di fatti che avvengono in paesi lontani, ma di ogni parte del mondo, con protagonisti gente di ogni razza, religione, estrazione sociale: non pensiamo a gente “barbara” che nulla ha a che fare col nostro mondo.
Fatto ancora più sconvolgente è che la maggior parte degli abusi sui minori non è opera di maniaci, pazzi che si aggirano per le strade, ma in 9 casi su 10 è opera di un parente o comunque di una persona vicina al bambino/a, che ha la sua fiducia, il dramma si consuma spesso in famiglia.

Talbot con “La storia del topo cattivo” squarcia il velo dell’indifferenza, del silenzio, abbatte il muro che si è soliti erigere per non venire a sapere di queste cose, è sempre comodo fare finta di niente ed andare avanti per la propria strada. Lui stesso nella postfazione del volume sottolinea quanto sia importante parlare del problema, portarlo alla luce, demolire questa “cospirazione silenziosa” e proporre una via di uscita a tutti quelli che hanno subito un trauma del genere.
Il ruolo dei media potrebbe essere infatti fondamentale: spesso le vittime, soprattutto quelle più giovani, pensano di essere le uniche in una situazione del genere, pensano che quanto accaduto affligga unicamente loro e tendono a chiudersi nel silenzio ed isolarsi dal mondo.

Helen è una ragazza bionda scappata di casa. Facciamo la sua conoscenza mentre sta mendicando nei corridoi della metropolitana. Capiamo subito che porta dentro di sé un carico esagerato di sofferenza, una ferita indelebile che la condiziona, qualcosa di brutto da cui non riesce a scappare. Parla a fatica, cerca di non dare confidenza a nessuno, non sopporta di essere toccata dagli altri. Grazie a brevi flashback veniamo a conoscenza di frammenti del suo passato, della sua situazione familiare difficile, anche se ancora non è chiaro quale sia stata la molla a far scattare in lei questo sentimento di repulsione verso gli altri.
Con il susseguirsi delle pagine, degli incontri che fa, delle decisioni che prende, dei ricordi del passato, Talbot ci fornisce il quadro completo della situazione.
Helen, per tornare a vivere veramente, per superare il trauma, deve confrontarsi con chi le ha causato tanta pena, tanto dolore, tanta sofferenza: il padre.

Il primo passo per poter uscire dal tunnel è infatti l’incontro con chi ha provocato il trauma, il superamento della disperazione in cui si è sprofondati può avvenire solo grazie ad un confronto con il proprio carnefice.
I bambini che subiscono un abuso sessuale solitamente tendono ad attribuire a sé stessi tutta la malvagità della molestia subita, pensano di essere cattivi, di non meritare di essere felici (“Ero convinta di essere la peggiore creatura che fosse mai stata messa al mondo. Non potevo dirlo a nessuno. Non volevo che si venisse a sapere che ero così cattiva. Non riuscivo ad avvicinarmi a nessuno, non sopportavo di essere toccata. Mi sentivo così sola. Così meschina. Così diversa da tutti gli altri. Mi sentivo un mostro.”), non riescono a vedere i propri genitori come persone malvagie.
Solo urlando in faccia al proprio torturatore tutta la rabbia per il suo comportamento egoistico, Helen riuscirà a tornare ad avere il controllo della propria vita.

Con una maestria lodevole, Talbot imprime sulle tavole la passione con cui affronta questo tema, affrescando con perizia la storia di Helen, il suo dramma ed il percorso di riappropriazione di sé: un libro da leggere!

domenica 9 novembre 2008

L'Alzheimer visto da Paco Roca: "Rughe"

“Rughe” dell’autore spagnolo Paco Roca è un pugno in faccia a tutti quanti ritengono che il fumetto sia una cosa per bambini, un passatempo per ragazzi deviati cresciuti male, uno sterile passatempo per nullafacenti.
L’ultima opera dell’autore spagnolo, vincitrice di importanti riconoscimenti sia al Salone del fumetto di Barcellona che alla recente Lucca Comics, è una delle tante dimostrazioni di quanto ignorante sia gran parte della gente (anche famosa) che in tv o su quotidiani e riviste sparla dei fumetti, sbilanciandosi in incresciose elucubrazioni ed elargendo critiche gratuite e senza fondamento a questo fantastico medium espressivo, critiche che non dimostrano altro se non la loro inclinazione a parlare di argomenti che evidentemente non conoscono minimamente.

“Rughe” è una piccola perla.
Roca con una semplicità disarmante riesce a realizzare un’ opera coinvolgente, che fa riflettere, che catapulta il lettore all’interno della storia mettendolo di fronte a sé stesso, nudo, senza giustificazioni, senza maschere.
Per farlo compie una scelta alquanto impopolare.
“Gli eroi son tutti giovani e belli”… ed infatti i protagonisti del libro sono tutti dei vecchi con i migliori anni della vita ormai alle spalle ed il capolinea all’orizzonte.
Il grande pubblico ama l’avventura, i personaggi forti e determinati che si lanciano in imprese titaniche, i personaggi che “succhiano il midollo della vita”, quelli che hanno comportamenti eversivi, i “dannati” che non si conformano alle regole della società.
Non troverete nulla di tutto ciò in Rughe.

I protagonisti sono stati parcheggiati dai propri parenti in una casa di riposo dove possano essere fornite loro “le migliori cure”. Spesso tutte queste buone intenzioni, “lo facciamo per il tuo bene”, non sono poi così evidenti e l’allontanamento risulta più che altro un non voler vedere, un esaurimento di pazienza, una mancanza di tempo, un abbandono. Lo si vede anche dalle poche visite che molti dei vecchietti della casa di cure ricevono, producendo in questi una malcelata tristezza nascosta dietro a timidi tentativi di auto-convicimento “non importa se vengono o meno”, “non voglio essere un peso per loro”.

Il personaggio principale è Emilio. Ci viene subito sbattuta in faccia la sua situazione nelle due pagine iniziali del fumetto: Emilio, direttore di una banca, sta parlando con una giovane coppia a cui non intende concedere un prestito vista la loro precaria condizione economica… ma… c’è qualcosa che non va, il ragazzo dice cose strane… dopo un po’ Emilio si rende finalmente conto di non essere dietro alla scrivania del suo ufficio ma a letto, di fronte a suo figlio e sua nuora che tentano di fargli mangiare la cena.

In due pagine emerge con forza tutta la straordinaria potenza espressiva del fumetto, in due pagine puoi già dire tutto, puoi far capire qualsiasi cosa al lettore.

Emilio viene dunque portato in questa casa per anziani, dove fa la conoscenza dei vari “inquilini” e viene a contatto con le persone più disparate.
E’ ancora abbastanza lucido per sentirsi in una posizione privilegiata di fronte a tanti dei suoi nuovi “amici”, si rende conto che c’è gente messa molto male, si stupisce che lì dentro non si faccia altro che dormire, pensa che stia soltanto perdendo qualche colpo come normale per uno della sua età.
L’umanità presente è la più disparata: c’è il suo compagno di stanza, sicuramente quello messo meglio, che sembra un po’ farabutto (chi leggerà il fumetto saprà se è realmente così), che spilla soldi agli altri e si lamenta della monotonia di quella non-vita. C’è una signora che vaga ogni giorno nei corridoi e tenta di arrivare alla reception per telefonare ai suoi figli, salvo poi scordarsi puntualmente cosa ci è andata fare una volta giunta a destinazione. C’è un ex conduttore radiofonico che non riesce a fare altro che ripetere quello che sente come un pappagallo. Un’altra signora che ha paura di restare sola e di essere così rapita dagli alieni, un’altra ancora che ruba dalla mensa bustine di ketchup, tea, salse, etc etc che ai suoi occhi sembrano preziosissimi tesori da donare al nipote non appena le farà visita, c’è poi la signora che guarda sempre dalla finestra pensando di viaggiare sull’orient express diretto a Istanbul, un vecchio sordo e sporcaccione, una vecchia che non riconosce più il marito che viene a trovarla ogni giorno ed è convinta di essere sposata con un altro ospite della casa di cure, c’è una tenera coppia formata da un anziano malato di Alzheimer in stato avanzato e dalla moglie che si prende amorevolmente cura di lui, c’è un vecchio convinto di essere ancora un soldato, un altro che parla solo della sua vecchia medaglia vinta ai campionati di atletica.

Tutti hanno le loro storie, tutti in passato hanno vissuto i loro fasti, tutti probabilmente non avrebbero mai immaginato di ritrovarsi in quella situazione. Quando si è giovani non ci si pensa, non ci si vuole pensare, si ha paura di immaginare un futuro così.

Ma hanno ancora una consolazione, loro sono al piano terra della clinica in questione. Anche se non sono più in forma, se la loro vita è scandita solamente dai pasti e dall’ora delle medicine, se tutto il tempo restante lo impiegano dormendo, loro riescono ancora a muoversi per conto proprio, sono abbastanza lucidi per svolgere almeno le azioni più elementari. La scala che porta al primo piano è un po’ il terrore di tutti. Si sa che una volta attraversata non si torna più indietro, si sa che lassù c’è qualcosa da temere anche più della morte. Al piano superiore c’è infatti il reparto per gli “assistiti”, per coloro che non sanno più prendersi cura di sé stessi, che non riescono a mangiare, a vestirsi, a fare un discorso.

Emilio piano piano peggiora sempre più. E’ malato di Alzheimer, la coscienza di ciò e la paura di fare la fine dell’esempio che ha sotto gli occhi ogni giorno probabilmente lo terrorizzano. La sua parabola discendente è però irrefrenabile. Viviamo assieme a lui i peggioramenti, si inizia col non riconoscere una palla, poi con lo svegliarsi nel cuore della notte per radersi ed andare al lavoro, poi con il vestirsi con abiti invertiti (maglione sopra la giacca) e rovesciati, poi ci si scorda il nome di chi ti sta vicino, si dimentica il nome di tutte le cose finchè è tutto una tavola bianca.

Il fumetto però non è triste. Certo il tema trattato non è allegro, ma il tutto viene presentato in maniera intelligente, non si insiste troppo, non si accentuano le situazioni, non si fanno commenti moralisti, si rappresenta semplicemente tutto com’è, prendendosi il gusto di dare un’opinione con la sola forza delle immagini, con un’ espressione dei volti, con un gesto elementare. Non si scade assolutamente nel patetico insomma.
Roca affronta un tema delicato come la malattia da Alzheimer con arguzia e perizia, alcune immagini fanno quasi sorridere nella loro dolcezza, seppure ci si trovi di fronte al dramma di un uomo che sta perdendo tutto.
Fanno tenerezza i tentativi di Michele ed Emilio di ingannare infermieri e medici, le provano tutte per cercare di sembrare ancora abbastanza in forma da evitare il temuto trasferimento al piano superiore. Come non commuoversi, appassionarsi, emozionarsi, divertirsi con loro nella loro goffa fuga dalla clinica, nel loro estremo tentativo di sentirsi vivi, di rifiutare il destino che hanno in sorte, di fare qualcosa che non ci si aspetta da loro, di dimostrare a tutti la loro dignità di persone, la loro forza interiore che sarebbe d’esempio a tanti giovani nel pieno del loro vigore.

Consiglio a tutti la lettura di questo libro (per scoprire anche il messaggio positivo finale!), non solo agli appassionati di fumetti. E’ una di quelle opere che fanno riflettere, che indagano su aspetti che cerchiamo sempre di trascurare giustificandoci con le più banali delle scuse, un fumetto che non può lasciare indifferenti.

Chiudo con un saluto al simpaticissimo Paco Roca che ho avuto l’opportunità di conoscere a Lucca: persona cordiale e disponibile, oltre che autore molto dotato.

PS: riporto quanto scritto sulla copertina del libro: "La mente di alcuni uomini è simile a una biblioteca nella quale i libri si accastano in montagne di carta ingiallita, popolata di sogni e di fantasie. Il logorio di tutta una vita li ricopre di rughe, e alcuni vedono le lettere delle loro pagine dissolversi, foglio dopo foglio, finchè diventano completamente bianche. Malgrado questo, le più intense emozioni sopravvivono, preservate come un tesoro nascosto in un'isola lontana".

Dimenticavo... Pubblicato da Tunuè, prezzo 12.50 euro.Un po' più di un centinaio di pagine, a colori, carta patinata.

La fenice Merce Rara risorge


TERZO D’AQUILEIA- Nei momenti di difficoltà Merce Rara si esalta. Un’ ulteriore conferma a questa verità assoluta è venuta dal match di ieri in casa del Fobal Show, dove la compagine bisiaca ha ottenuto la prima vittoria esterna del campionato.
In piena emergenza per una moria inverosimile di giocatori (tra infortunati ed assenti vari, la squadra è più che dimezzata), la lisca di pesce fa ancora una volta di necessità virtù, sfoderando una grande prestazione e mettendo a tacere i critici che troppo presto avevano iniziato a mugugnare ed a crocifiggere la squadra di mister Sau.
E’ nel DNA di questo team il gusto per la battaglia cruda, per i confronti sofferti: vincere quando si viene dati per spacciati da sempre un particolare sapore ad ogni traguardo tagliato. E, nel corso di quest’avventura lunga tre anni, di situazioni simili se ne sono vissute parecchie. Innumerevoli i recuperi insperati dopo cadute fragorose, con inversioni di trend improvvise che hanno contribuito a compattare il gruppo ed alimentare il mito dello spirito guerriero merciale.
La squadra bisiaca si presenta in terra friulana fortemente rimaneggiata. Oltre ai soliti noti, l’allenatore è costretto a rinunciare anche a gran parte della difesa titolare (Pangos squalificato, Modesti infortunato, Berlese indisponibile), a Tennina, che deve ancora scontare una giornata dopo l’espulsione di Trivignano, ed al funambolo De Monte, debilitato dall’influenza e costretto ad iniziare dalla panchina.
Ricordandosi probabilmente di una straordinaria vittoria di qualche anno fa dell’ Udinese in casa della Juve, mister Sau si improvvisa novello Zac e decide di giocarsi il tutto per tutto, schierando una formazione a trazione anteriore, al limite dell’arroganza pura a leggere i nomi dello starting 11.
Viene dunque varato un inedito 3-4-3: in porta il solito Alagia dalle scarpe giallo fosforescente; davanti a lui viene spostato Garaffa, schierato da difensore centrale e nominato baluardo ultimo del fortino merciale, con a destra il solito affidabile capitan Topan e a sinistra il prorompente ed esplosivo Gallo. Inedita la coppia centrale di centrocampo, con Puschiasis e De Zorzi a fungere da frangiflutti e pronti ad innescare la manovra offensiva, mentre sulle fasce vengono proposti Bortolotti e Coppo, due stantuffi dai polmoni decuplicati. Il trio offensivo vede il pibe Marongiu, alla prima presenza stagionale da titolare, a sinistra, “bicicleta” Calabrò a fungere da boa centrale e Johnny “E’ quasi magia” Bella a destra.
A disposizione di mr Sau restano i sempre utili Volpato, De Monte, Cardone ed, a sorpresa, il principito Fari, rispolverato dopo mesi di lontananza dal suo habitat naturale, il campo da calcio, ed accolto al suo ingresso in campo da un’ovazione del folto e caldo pubblico merciale che ha seguito la propria squadra in trasferta.
Merce Rara riesce ad imporsi grazie ad un gol di un ottimo Calabrò dopo una splendida azione corale coronata dal perfetto cross di Coppo per il puntero bisiaco. Da sottolineare che Calabrò, anche lui schierato per la prima volta da titolare, ripaga completamente la fiducia del mister, rendendosi utile durante tutta la partita con sponde e spizzate di prima e difendendo col corpo tanti palloni, dando così alla squadra la possibilità di salire o di rifiatare un po’.
Lodevole prestazione di sacrificio totale da parte di Bortolotti, sempre generoso nei ripiegamenti difensivi: “final cut express” da fondo a tutto il suo ardore e non molla mai l’avversario, finendo per giocare con umiltà più a ridosso della propria area che di quella avversaria, dando così un prezioso e decisivo sostegno alla propria squadra.
Interessante anche la prestazione della coppia centrale di centrocampo: schierati per la prima volta uno a fianco all’altro, Puschiasis e De Zorzi riescono a trovare un ottimo affiatamento, spartendosi le zone da coprire e disponendosi leggermente sfalsati: il numero 3 merciale un po’ più avanti per saltare sulle palle alte e fungere da prima barricata, il giovane 25 leggermente più indietro per chiudere chiunque riuscisse a passare di lì.
Citazione d’onore per la difesa, sempre attenta ed arcigna, guidata con leadership dal possente Garaffa, che disinnesca il forte attaccante avversario con il fisico, giocando d’esperienza ed astuzia. La retroguardia merciale, pur non avendo potuto godere di una continuità di giocatori schierati (praticamente diversa ad ogni partita giocata la linea difensiva) si conferma la migliore della lega (assieme a quella della capolista Technical Plants, in attesa del big match di oggi tra La Fortezza e Real Cervignano).
Da evidenziare infine anche la preziosa prestazione regalata ai tifosi da Marongiu e Bella, due costanti spine nel fianco aquileiese, che hanno avuto anche alcune ottime occasioni per sfondare la rete.
Forse è proprio la difficoltà ad andare a segno l’unica nota negativa di giornata. Con un solo gol di scarto in una partita a tratti dominata, si è rischiata la beffa nel finale, quando il Fobal Show ha potuto godere di diverse punizioni al limite dell’area (tra l’altro assegnate per falli spesso ingenui ed evitabili).Ora per Merce Rara scatta il turno di riposo: in questo periodo si spera di recuperare diversi giocatori ed affinare il gioco durante gli allenamenti, per presentarsi carichi all’incontro contro gli Amatori Gradisca previsto per il 24 novembre nella bolgia del Valerio Del Neri.